Migliaia di persone hanno protestato oggi agli aeroporti di New York e in strada contro il bando di Trump. Il decreto prevede che per tre mesi siano congelati gli arrivi da sette paesi a maggioranza islamica e per quattro mesi il programma dei rifugiati.

Aprite qualunque giornale, cliccate su qualunque sito di news, e i titoli ve lo confermeranno. Ciò che nessuno vi dirà mai, però, è la storia di Charlie.
Charlie (nome d’arte per mantenere l’anonimato dell’interessato) si è svegliato stamattina inconsapevole che il mondo aveva cominciato a girare al contrario.

Credeva che quel tizio arancione con un peluche sulla testa, quello che scorreva sulle immagini della TV a casa, sui cartelli per le strade, sui manifesti affissi nei negozi, fosse solo l’ennesimo esemplare bislacco della sua specie.

In fondo, anche Charlie non era di razza. L’avevano raccattato al canile ancora cucciolo, scodinzolante e pieno di pulci, con le orecchie arruffate in una matassa lanosa.
Riconosceva alcuni tratti in comune con il tizio arancione della foto, forse anche lui era stato preso al canile: quando parlava, si agitava. L’esuberanza della parlantina gli ricordava i suoi tentativi maldestri di instaurare una comunicazione abbaiando.

Il problema, però, era che Charlie abbaiava per dare l’allarme, per fare la guardia, per difesa o per richiamare l’attenzione. Non aveva ancora elaborato una strategia chiara. Proprio come il tizio in TV. Quando alzava la voce, dimenava le mani al vento, inspirava a fondo, sbuffava. Non articolava le parole come aveva visto fare ad altri umani più allenati. Era chiaramente in difficoltà. Per questa ragione, Charlie provava simpatia per lui.

Se incrociava la sua foto sull’autobus, faceva le feste su due zampe. Se lo vedeva alla televisione, guaiva di gioia. Aveva persino iniziato ad associare il suo volto al nome. TRUMP. Un nome corto, con consonanti forti, per essere compreso con facilità. Per essere gridato al vento, riconosciuto facilmente all’interno di una frase. Un nome del genere avrebbe potuto incantare una folla! I suoi padroni l’avevano imparato immediatamente, tanto che lo ripetevano da giorni in casa.

Charlie è uscito con loro alla solita ora. C’era anche il tizio, il suo faccione dipinto su un cartello, impugnato da un’asta e sollevato all’altezza della testa. Dovevano proprio amarlo.
Arrivati al parco, i cartelli si erano moltiplicati. Tanti piccoli Trump troneggiavano nelle fotografie.

La gente si teneva per mano, ripeteva concitata frasi in coro: “No hate, no fear” o “Respect everyone” o “Welcome”. Fin lì, tutto abbastanza chiaro. Oppure ripeteva slogan nebulosi come: “No ban, no wall”, dal suono rotondo e avvolgente.

Charlie osservava dal basso, schivando le gambe dei manifestanti. Se ce l’aveva fatta Trump, anche lui aveva qualche chance. Doveva semplicemente sostenere l’amico.

Sulla via del ritorno, i padroni sono passati attraverso Wall Street. La conosceva bene la passeggiata, dopotutto è un cane di New York, aveva esattamente cinque punti dove faceva pipì abitualmente. Ogni tappa era accompagnata da un commento di congratulazioni per i suoi sforzi. Superato il terzo, dopo l’edificio dello Stock Exchange, la pancia ha iniziato a fremere di vita propria. L’aria invernale di New York fendeva il suo pelo come una lama. Charlie avrebbe voluto aspettare, preferiva l’erbetta del parco all’inospitabilità del cemento.

D’un tratto, però, ha udito un turista esclamare: “Ecco, il Trump Building!”

Era un segno, uno di quelli in cui la natura va a braccetto con l’intenzione, quando avvertiamo un senso universale attraverso un lampo di ispirazione. Ha cominciato a allungare il collo, tirando i muscoli in direzione dell’entrata. Il collare gli stringeva come un cappio, il guinzaglio quasi lo strozzava.

“Charlie!” udiva il suo padrone urlare mentre lui riusciva, con uno strattone, a divincolarsi. Alcuni bambini tentavano di raggiungerlo, un passante lo ha accarezzato di sfuggita. Ma Charlie voleva solo raggiungere il suo amico arancione. E rendergli omaggio.
Di corsa si è lanciato sulla scalinata, fino a raggiungere l’ingresso dorato con la porta girevole. E lì si è bloccato, proprio mentre una piccola folla aveva iniziato a circondarlo.
Charlie ha stretto gli occhi e spinto con tutta l’energia che aveva in corpo. E voilà.
Il bisognino, solido come una palla da golf, è uscito con un piccolo rimbalzo sul marciapiede di granito. Di fronte alla maestosa entrata del Trump Building.

La folla ha guardato in religioso silenzio l’esito della fatica, ognuno immerso in un pensiero inespresso. Poi il verdetto è stato unanime, lo scroscio di applausi grandioso come una pioggia primaverile.
“Bravo!” gridavano, a colpi di fotografia e flash.
Le qualità di un grande leader si giudicano dai risultati.[:]