[:en]Natale,vacanze,rientro,Nigeria,Italia

Aeroporto di Lagos

Ci siamo. Manca una settimana alla fatidica data. Quale? Ma quella del rientro a casa per le vacanze di Natale, è ovvio!
Già, perché noi immigrati nel West Africa non siamo così lontani e/o così pazzi da non approfittare delle vacanze natalizie per fare una capatina a casa.
Vacanze? Ma fatemi il piacere! Io ho un’idea ben diversa di vacanza… Quello che mi aspetta tra una settimana è un tour de force pazzesco, che mi porterà a toccare ben due continenti in circa 20 ore di viaggio (se va bene), un minimo di sette controlli tra passaporti, bagagli, cartelle delle vaccinazioni, eventuali carie, colonscopia e quant’altro venga in mente agli scrupolosi agenti aeroportuali.
Il viaggio, in realtà, inizia mesi prima, almeno a livello progettuale. Verso fine settembre, quando ancora un paio delle valigie del viaggio precedente campeggiano beate nell’ ingresso, piene zeppe di scorte di cibo non deperibili e scarpe per bambini di taglie più grandi, inizia la ricerca del biglietto più conveniente per il ritorno natalizio. C’è chi ha già prenotato da gennaio e ti deride apertamente, c’è chi passa le notti in bianco smanettando su internet alla ricerca della promozione del secolo, chi si affida ai consigli dei furbi che hanno prenotato proprio ieri su una compagnia che fa prezzi stracciatissimi e chissenefrega se devi fare una decina di scali di cui uno a Timbuctù, chi gioca i numeri all’enalotto e chi, come me, ai primi di ottobre già dispera di poter trovare un qualsiasi volo che abbia quattro posti liberi per la metà di dicembre.
Quando poi, dopo tanta fatica, si entra miracolosamente in possesso dei biglietti, inizia il conto alla rovescia. Dall’Italia iniziano a chiederti: “Allora manca poco, eh?”, oppure: “Dai, ancora un mesetto e mezzo e ci vediamo”, come se in quei lunghissimi 45 giorni di attesa uno se ne stesse seduto su una sdraio, con la valigia in mano, ad aspettare il proprio turno.
La realtà è ben diversa. Come ogni viaggio che si rispetti, ci sono delle attività da programmare e pianificare per filo e per segno. La composizione e il numero delle valigie, per dirne una. Chiunque viaggi di sovente da e verso l’Africa sa il valore intrinseco dei chilogrammi concessi a ciascuno dei propri bagagli. E li sfrutta, fino all’ultimo grammo. Mi è già capitato di spostare calzini da una valigia all’altra per raggiungere il peso consentito. Ogni valigia è un universo a sé: va pensata, ma soprattutto pesata.
Cosa porto? Cosa mi potrebbe servire? Questo quarto di bue affumicato passerà i controlli? E giù a compilare liste su liste, a correggere, a modificare, a infilare e a togliere in una spirale sempre più serrata che si concluderà solo il giorno della partenza. Che prima o poi, in effetti, arriva.
La mattina del volo (si dice così, qui da noi, per fare prima) ci si sveglia prestissimo. Poco importa che l’aereo decolli alle 22.45: gli ultimi preparativi sono quelli più importanti, quelli che non lasciano margine ad errori. Se dimentico lo spazzolino, mica posso chiedere al pilota di tornare indietro, giusto? Il primo compito, subito dopo una colazione che si distingue per il menu particolarmente ricco di alimenti che potremmo solo definire come “avanzi del giorno prima che non vogliamo buttare”, è il controllo dei documenti necessari al viaggio. Generalmente questo passaggio è già stato fatto più o meno un milione di volte nelle ultime settimane, ma non si sa mai che qualcosa sia sfuggito.
Ad esempio la scadenza del passaporto, giusto per citarne una…
Quindi si passa a chiudere le valigie, rimaste aperte dalla sera prima, per poter aggiungere giusto quelle due o tre sciocchezzuole dell’ultimo minuto. “O cavoli! Ma non l’avevi messo già in valigia?”. “Boh, deve essere saltato fuori”, è un tipico scambio di battute da mattina della partenza.
Ma anche: “Mannaggia la miseriaccia ladra!!!! Dove sono finite le mie mutande a righe?”.
Chiuse le valigie, sigillate, ceralaccate, lustrate con lo speciale olio antigraffio, si passa al livello successivo: il riordino dello spazio abitativo, altrimenti detto “imboschiamo l’imboscabile”.
Passando in rassegna le varie stanze, la sensazione che sia appena passata un’onda di barbari è tangibile. Ma il generale prussiano che è in me intona l’adunata e in men che non si dica la mia piccola truppa famigliare si mette a riordinare. I risultati non sono eclatanti, ma almeno i cassetti sono chiusi e le luci spente. Già ora di andare? Seeee… magari! Ci sono ancora lunghe ore di attesa, spese generalmente in attività di interesse collettivo (guardare un film per famiglie) o personale (tagliarsi le unghie).
Il delirio scatta cinque minuti prima della fatidica ora X: 4 docce da fare e solo 2 bagni, l’ultima pipì, lo spazzolino che era rimasto fuori ritrovato tra i calzini sporchi (rimarrà lì fino a gennaio?), i saluti dell’ultimo nano secondo a chi resta, le valigie da caricare in macchina e finalmente… si parte!
Dopo circa 2 ore e mezzo a passo di lumaca, imbottigliati nel traffico più assurdo, si raggiunge l’aeroporto.
Sull’aeroporto di Lagos bisogna spendere un articolo a parte e quindi soprassiederò, per il momento. Vi basti sapere che, dopo quattro ore di estenuanti fila per controlli di vario genere, riusciamo a sedere sull’aereo. Dai, è fatta! Direte voi. Certo, un terzo del viaggio sicuramente sì. Vi dico solo che, a questo punto, quando dagli auricolari arriva la soave voce del capitano che ci dà il benvenuto e ci avverte che stiamo per decollare, una piccola lacrima di soddisfazione a me scende sempre. Ancora un continente e mezzo e ci siamo!
L’aereo vola silenzioso nella notte (silenzioso per me, che ho i tappi nelle orecchie) attraversando il Sahara e parte del medio oriente. Alle prime luci dell’alba, finalmente, l’Asia. Quella turca, per carità, ma fa un certo effetto lo stesso. Insonnoliti, infreddoliti, rincoglioniti, corriamo disperatamente alla ricerca del volo per l’Italia, sperando di farcela. Generalmente è così, ma ormai siamo pronti a tutto.
Altre 3 ore di volo e poi, non fai in tempo ad accorgerti delle Alpi che l’aereo fa una leggera flessione e inizia le operazioni di atterraggio.
Ora le lacrime sono più d’una, perché la consapevolezza di star per toccare il suolo italiano commuove più della puntata finale della propria serie tv preferita.
All’aeroporto, dopo gli ultimi controlli e il recupero della valigia, ci trasciniamo distrutti verso la porta su cui campeggia a chiare lettere la scritta EXIT. Ancora pochi metri e ci siamo…
“Scusi, lei?”. Una voce interrompe le mie riflessioni che vertono su quale delle seguenti cose farò per prima una volta fuori: cappuccino (dopo mesi!!!), corsa al bagno o 1200 telefonate per avvisare che siamo atterrati sani e salvi.
Ha qualcosa da dichiarare?”
“Da dove vuole che inizi?”.[:it]

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Aeroporto di Lagos

Ci siamo. Manca una settimana alla fatidica data. Quale? Ma quella del rientro a casa per le vacanze di Natale, è ovvio!
Già, perché noi immigrati nel West Africa non siamo così lontani e/o così pazzi da non approfittare delle vacanze natalizie per fare una capatina a casa.
Vacanze? Ma fatemi il piacere! Io ho un’idea ben diversa di vacanza… Quello che mi aspetta tra una settimana è un tour de force pazzesco, che mi porterà a toccare ben due continenti in circa 20 ore di viaggio (se va bene), un minimo di sette controlli tra passaporti, bagagli, cartelle delle vaccinazioni, eventuali carie, colonscopia e quant’altro venga in mente agli scrupolosi agenti aeroportuali.
Il viaggio, in realtà, inizia mesi prima, almeno a livello progettuale. Verso fine settembre, quando ancora un paio delle valigie del viaggio precedente campeggiano beate nell’ingresso, piene zeppe di scorte di cibo non deperibili e scarpe per bambini di taglie più grandi, inizia la ricerca del biglietto più conveniente per il ritorno natalizio. C’è chi ha già prenotato da gennaio e ti deride apertamente, c’è chi passa le notti in bianco smanettando su internet alla ricerca della promozione del secolo, chi si affida ai consigli dei furbi che hanno prenotato proprio ieri su una compagnia che fa prezzi stracciatissimi e chissenefrega se devi fare una decina di scali di cui uno a Timbuctù, chi gioca i numeri all’enalotto e chi, come me, ai primi di ottobre già dispera di poter trovare un qualsiasi volo che abbia quattro posti liberi per la metà di dicembre.
Quando poi, dopo tanta fatica, si entra miracolosamente in possesso dei biglietti, inizia il conto alla rovescia. Dall’Italia iniziano a chiederti: “Allora manca poco, eh?”, oppure: “Dai, ancora un mesetto e mezzo e ci vediamo”, come se in quei lunghissimi 45 giorni di attesa uno se ne stesse seduto su una sdraio, con la valigia in mano, ad aspettare il proprio turno.
La realtà è ben diversa. Come ogni viaggio che si rispetti, ci sono delle attività da programmare e pianificare per filo e per segno. La composizione e il numero delle valigie, per dirne una. Chiunque viaggi di sovente da e verso l’Africa sa il valore intrinseco dei chilogrammi concessi a ciascuno dei propri bagagli. E li sfrutta, fino all’ultimo grammo. Mi è già capitato di spostare calzini da una valigia all’altra per raggiungere il peso consentito. Ogni valigia è un universo a sé: va pensata, ma soprattutto pesata.
Cosa porto? Cosa mi potrebbe servire? Questo quarto di bue affumicato passerà i controlli? E giù a compilare liste su liste, a correggere, a modificare, a infilare e a togliere in una spirale sempre più serrata che si concluderà solo il giorno della partenza. Che prima o poi, in effetti, arriva.
La mattina del volo (si dice così, qui da noi, per fare prima) ci si sveglia prestissimo. Poco importa che l’aereo decolli alle 22.45: gli ultimi preparativi sono quelli più importanti, quelli che non lasciano margine ad errori. Se dimentico lo spazzolino, mica posso chiedere al pilota di tornare indietro, giusto? Il primo compito, subito dopo una colazione che si distingue per il menu particolarmente ricco di alimenti che potremmo solo definire come “avanzi del giorno prima che non vogliamo buttare”, è il controllo dei documenti necessari al viaggio. Generalmente questo passaggio è già stato fatto più o meno un milione di volte nelle ultime settimane, ma non si sa mai che qualcosa sia sfuggito.
Ad esempio la scadenza del passaporto, giusto per citarne una…
Quindi si passa a chiudere le valigie, rimaste aperte dalla sera prima, per poter aggiungere giusto quelle due o tre sciocchezzuole dell’ultimo minuto. “O cavoli! Ma non l’avevi messo già in valigia?”. “Boh, deve essere saltato fuori”, è un tipico scambio di battute da mattina della partenza.
Ma anche: “Mannaggia la miseriaccia ladra!!!! Dove sono finite le mie mutande a righe?”.
Chiuse le valigie, sigillate, ceralaccate, lustrate con lo speciale olio antigraffio, si passa al livello successivo: il riordino dello spazio abitativo, altrimenti detto “imboschiamo l’imboscabile”.
Passando in rassegna le varie stanze, la sensazione che sia appena passata un’onda di barbari è tangibile. Ma il generale prussiano che è in me intona l’adunata e in men che non si dica la mia piccola truppa famigliare si mette a riordinare. I risultati non sono eclatanti, ma almeno i cassetti sono chiusi e le luci spente. Già ora di andare? Seeee… magari! Ci sono ancora lunghe ore di attesa, spese generalmente in attività di interesse collettivo (guardare un film per famiglie) o personale (tagliarsi le unghie).
Il delirio scatta cinque minuti prima della fatidica ora X: 4 docce da fare e solo 2 bagni, l’ultima pipì, lo spazzolino che era rimasto fuori ritrovato tra i calzini sporchi (rimarrà lì fino a gennaio?), i saluti dell’ultimo nano secondo a chi resta, le valigie da caricare in macchina e finalmente… si parte!
Dopo circa 2 ore e mezzo a passo di lumaca, imbottigliati nel traffico più assurdo, si raggiunge l’aeroporto.
Sull’aeroporto di Lagos bisogna spendere un articolo a parte e quindi soprassiederò, per il momento. Vi basti sapere che, dopo quattro ore di estenuanti fila per controlli di vario genere, riusciamo a sedere sull’aereo. Dai, è fatta! Direte voi. Certo, un terzo del viaggio sicuramente sì. Vi dico solo che, a questo punto, quando dagli auricolari arriva la soave voce del capitano che ci dà il benvenuto e ci avverte che stiamo per decollare, una piccola lacrima di soddisfazione a me scende sempre. Ancora un continente e mezzo e ci siamo!
L’aereo vola silenzioso nella notte (silenzioso per me, che ho i tappi nelle orecchie) attraversando il Sahara e parte del medio oriente. Alle prime luci dell’alba, finalmente, l’Asia. Quella turca, per carità, ma fa un certo effetto lo stesso. Insonnoliti, infreddoliti, rincoglioniti, corriamo disperatamente alla ricerca del volo per l’Italia, sperando di farcela. Generalmente è così, ma ormai siamo pronti a tutto.
Altre 3 ore di volo e poi, non fai in tempo ad accorgerti delle Alpi che l’aereo fa una leggera flessione e inizia le operazioni di atterraggio.
Ora le lacrime sono più d’una, perché la consapevolezza di star per toccare il suolo italiano commuove più della puntata finale della propria serie tv preferita.
All’aeroporto, dopo gli ultimi controlli e il recupero della valigia, ci trasciniamo distrutti verso la porta su cui campeggia a chiare lettere la scritta EXIT. Ancora pochi metri e ci siamo…
“Scusi, lei?”. Una voce interrompe le mie riflessioni che vertono su quale delle seguenti cose farò per prima una volta fuori: cappuccino (dopo mesi!!!), corsa al bagno o 1200 telefonate per avvisare che siamo atterrati sani e salvi.
Ha qualcosa da dichiarare?”
“Da dove vuole che inizi?”.

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