Chi di noi non si è identificata nella pubblicità della tipa che, colta da un attacco di isteria acuta, emette un grido inumano alla consegna delle sue scarpe predilette? E quale donna vedendo la gente che inchioda di fronte ad un cartellone pubblicitario con una bellona in biancheria intima non vorrebbe avere quelle curve? Sicuramente tante, ma solo d’istinto.
Perché essere additate come oche scarpofile starnazzanti o come bombe sexy tutte-culottes-e-niente-cervello non è che sia proprio il massimo, dato che analizzando gli spot pubblicitari la figura femminile è abusata tramite lo sfruttamento di immagini erotiche o l’inserimento in scenette familiari che con la femminilità hanno ben poco a che vedere (sì sì, mamme vestite da zitella, pettinate alla Olivia di Braccio di ferro, asessuate a partire dalla voce da missionaria).
Fra parentesi, il maschio è sempre il duro, il professionista, il trombatore, raramente presentato come genitore, e quando lo è assume atteggiamenti fortemente giusti e misurati, consoni al prodotto e che risaltano il buon padre di famiglia. Perché non è mai uscito uno spot in cui l’uomo non trova i calzini nel cassetto, mentre la moglie lo redarguisce regalandogli un calzin detector e gli dice: “Vedi? Non trovi i calzini nel cassetto, figuriamoci il punto G”.
Analizziamo invece alcuni esempi di stereotipo femminile: le “modelle” (rappresentano l’ideale assoluto di bellezza morbida e impeccabile), le “statuine” (elemento decorativo che non dice niente, non fa niente, se non cibare il criceto che annaspa fra le ipotetiche rotelle del cervello), le “disponibili” (immortalate in atteggiamenti alla “vieni qui, non vedi che son pronta all’uso?” spesso riprese in posizione prona o in quella tipica dell’ispezione vaginale dal ginecologo), i “manichini” (corpo femminile o parti di esso, posti accanto all’oggetto da pubblicizzare), “ragazze interrotte” (annullate in quanto persona, meri oggetti di arredo, soprammobili statuari, algidi e bellissimi ma inutili) e “preorgasmiche” (in espressione di piacere sessuale, bocca spalancata tipica della bambola gonfiabile che sembra gridare AncorAAAAA, corpo lucido, occhi socchiusi) .
Vogliamo parlare degli slogan? “La diamo a tutti” (l’ ADSL), “Fàtti la cubana” (chi mai penserebbe ad una birra?) oppure “Fàtti il capo” (l’amaro, cosa avete capito?) “A me piace nero” (ma dai suuuu, è chiaro che si tratti di un dentifricio, maliziosi!). Una cultura ‘evoluta’ che permette tale uso della pubblicità, quanto può ritenersi tale? (Ed ho omesso i casi degli slogan “cancella le tracce” oppure “lascia il segno”, “degustala” o “rotto? te lo ripariamo”, con le natiche in primo piano) . Mi spiego meglio, non sarà per caso la stessa morale del “se l’è cercata, quella maiala che va in giro in minigonna”… ?
Non rimane che confidare nel protocollo d’intesa siglato nel gennaio 2011 fra Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) e il Dipartimento delle Pari Opportunità, e segnalare culi al vento, pose erotiche e sfruttamenti di genere, sperando che la donna riacquisti un po’ di dignità e venga tutelata, almeno nell’immaginario collettivo, giacché per le menti distorte passare da ‘passione focosa’ a ‘dar fuoco alla moglie’ è un attimo.
Per concludere, consiglio vivamente ai pubblicitari, se sono a corto di inventiva, di fare leva sull’effettivo valore di un prodotto, elencandone peculiarità e pregi, esenculi e esentette di donne, (nonostante l’inerzia del sistema pubblicitario sia grande, data la massificazione livellata a picco verso il consumismo materiale e sessuale) . Buon lavoro!