Ho visto il mio primo medico in una clinica di Seattle per un’emicrania. L’iter di registrazione prevede uno scambio di informazioni all’helpdesk, la compilazione di un plico interminabile di moduli, la sala d’attesa. Fin qui, nulla di strano. Eppure, al secondo passaggio, si è ripetuta la stessa scena che avviene ormai da quando mi sono trasferita in America e per cui sto seriamente considerando una lamentela all’anagrafe: il mio nome crea scompiglio.

Mi capita da Starbucks, dove i tazzoni sono marcati a penna alla cassa e il mio caffè invariabilmente si raffredda sul bancone col nome di un’altra. Mi capita quando chiamo a scuola e tento di far capire che sono la legittima madre dei miei figli, e non un’impostora che si spaccia come tale. Mi capita persino quando mi clonano il bancomat e il sistema di riconoscimento vocale della banca rifiuta di credere che io sia io, nonostante la telefonata avvenga dal mio cellulare. Il mio nome suona alle orecchie americane come un brusio indecifrabile, due sillabe accostate per il puro desiderio di confondere.

I giorni felici della consapevolezza di sé, rafforzati dal Leopardi, dalle note di Guccini e persino dalla madre di Romolo e Remo, sembrano perduti per sempre – tutte le Silvie della storia ridotte a un cumulo di detriti. “Silvia” produce la sensazione di un corpo estraneo conficcato in gola.

Come da copione, ho trascorso un quarto d’ora con la segretaria della clinica nel tentativo di comunicarle le mie informazioni di base. Ci siamo arenate alla prima, le sue ditina impazienti che tamburellavano diverse combinazioni del mio nome sulla tastiera del pc. Dietro al battito nervoso delle ciglia, la disapprovazione di chi non vuole perdere tempo.

First Name: Silvia. Mi guarda, sorride, e scrive Celia. No, la correggo con tono amabile. Silvia. Sure, dice lei. Celbia. No, dico io, sempre amabile. È proprio Silvia, penso. Non così diverso da Sylvia, tra l’altro. La pronuncia inglese però è più abbondante, la “l” richiede un boccone immaginario di riso che impedisce la deglutizione. Stiro le labbra in un sorriso, digrigno quasi i denti, senza rendermene conto allungo la “i” in un nitrito. “Siiiilvia”. Lei mi guarda, annuisce, la mascella volitiva che non ammette ulteriori variazioni. Mi porge il mio plico di fogli dove ha scritto Siria. L’ultima discendente di una stirpe di Amazzoni.

Mi rassegno, e con la coda tra le gambe vado dal dottore.

Il dottore è un neurologo russo. Lui sì che trasecola a leggere le mie generalità. È innamorato dell’Italia. Ma che dire “innamorato”? Proprio sedotto, ammaliato, rapito. Tanto che non la smette di parlare dell’Italia per un secondo. Mi racconta del vino, delle sue passeggiate tra le vigne, poi ancora del vino, bianco, rosso e rosé. Per un attimo ci distraiamo dicendo due sciocchezze sulla mia emicrania: sì, fa male, sarebbe bello non averla, tra l’altro è scatenata dal vino. E voilà. Detta la parola magica, ricominciamo a discutere di ciò che ci preme davvero. Come quella volta che è stato a Barolo e ha apprezzato le Langhe, con quelle colline autunnali, per non parlare della degustazione al tramonto. Il mio cuore piemontese sussulta di orgoglio.

Tre quarti d’ora dopo ci accorgiamo che il tempo è volato. Ormai so tutto della sua famiglia, dei suoi splendidi bambini che amano gli agnolotti e delle preferenze alcoliche della moglie. Lui dice di aver un quadro preciso della mia emicrania, credo più per osmosi che per indicazioni verbali. Mi prescrive una medicina preventiva da prendere una volta al giorno per un tempo indefinito, potenzialmente la vita. Sulle controindicazioni è vago, dice di non preoccuparmi quando leggo il bugiardino. Tanto è bugiardo, quello è il succo.

Esco con la sensazione di aver scordato qualcosa, come quando ci si mette le mutande al contrario o si lascia la borsa a casa.

Non pago perché tutti i miei dati sono stati inghiottiti e digeriti dalla mia tessera assicurativa, l’unica informazione che la segretaria ha accuratamente digitato sulla tastiera. Ho l’impressione che tutto l’apparato di segretarie e medico esperto in vini italiani costi un patrimonio, ma nessuno mi rivela la cifra. Sarà l’assicurazione a occuparsene. Funziona così anche per le medicine e per gli esami medici. Quella tesserina, parte del nostro pacchetto di relocation, è un salvavita portatile, ma anche la causa di uno spreco enorme: chi mi dice, infatti, che non avrei risparmiato andando in un’altra clinica o utilizzando un altro medicinale? O che non avrei fatto risparmiare qualcosa allo stato di Washington? E chi non ha quella tesserina, avrebbe mai discusso del potere olfattivo del Nebbiolo?

Il mio secondo appuntamento mi ha offerto un ulteriore spaccato sulla sanità.

L’iter iniziale si ripete negli stessi termini, tanto che mi sfiora il pensiero di presentarmi come Monna Lisa, giusto per semplificare. Dopo la compilazione del mio intero albero genealogico, vengo guidata al piano inferiore seguendo un labirinto di sale d’attesa e corridoi. La mia accompagnatrice si congeda di fronte a una stanzetta, la segreta del sotterraneo, e all’interno trovo due infermiere: una bassa e  rotonda con penna e taccuino alla mano e un’altra alta e spigolosa con un metro da sarta. Il tragitto e i personaggi sembrano il set di un fantasy.

La seconda mi misura per bene, altezza e massa muscolare, con e senza scarpe, mentre la prima annota. Lo stesso avviene quando salgo sulla bilancia e porgo il braccio per la pressione. La tizia che annota è serissima, ha due occhietti tondi da civetta.

Poi inizia il terzo grado, in una scala di crescente indiscrezione.

“Regular period?”

Annuisco.

“Any particular pain?”

Scuoto la testa.

Poi mi coglie di sorpresa, forse perché il tono contrasta col contenuto.

“Are you sexually active?”

La guardo stupidamente. Lo so che non sta per pubblicare i miei fatti personali su People ma trovo difficile rispondere con l’altra tizia che continua a scribacchiare.

Ma è alle ultime due domande: “Do you like sex?” e “How many times in a week?” che inizio a frugare gli angoli del soffitto per individuare le telecamere.

Finito il questionario, si alzano e mi dicono di attendere la dottoressa. Resto sola, svuotata di ogni velo di intimità, e mi accorgo che sul lettino mi attende una specie di vestaglietta a fiori, colore verde mela. Senza istruzioni per l’uso. E ora che faccio? La metto sopra, al posto di qualcos’altro, coi calzini o senza? E se sbaglio? Immagino la ginecologa spanciarsi dalle risate mentre osserva i miei errori da principiante, mentre l’infermiera tarchiata immortala la scena sul suo libretto.

Finalmente ci incontriamo. Va meglio di quel che credevo, anche perché anche la ginecologa è appena tornata dall’Italia, un viaggio in bicicletta dalle Dolomiti alla Puglia. Meraviglioso. Sarebbe stato bello parlarne se non me l’avesse raccontato durante il pap-test.