Cambiare account su Facebook  è un po’ come per una donna tagliarsi i capelli, come quando uno pensa “vita nuova!”, salvo poi andare a ricercare gli stessi contatti di sempre, anzi, peggio: dare un’occhiata al girone dei bannati/bannatori, persone che prima non potevi vedere e che nel nuovo account ti vengono proposte come nuove, possibili amicizie.

Te li ritrovi tutti lì i tuoi fantasmi, quelli che non leggevi da anni perché li avevi silenziato, ritenendo poco educato eliminarli, oppure i parenti ai quali hai sempre fatto credere di non usare alcun social, poi vari ex reali o immaginari e l’immancabile Selvaggia Lucarelli che di rito va bannata come prima operazione, un po’ per scaramanzia perché bloccarla porta bene e un po’ per far capire a Facebook chi comanda.

Ci si abbandona ai ricordi, la mente torna ai battibecchi del 2010, i gruppetti, le alleanze e i tradimenti, le K che andavano di moda come i jeans a zampa d’elefante negli anni ’70, i like che avevano l’unica forma di pollicione e da soli dovevano comunicare tutto, i meravigliosi poke che mai nessuno è riuscito a capire cosa fossero ma che ti arrivavano lesti e inattesi, come una toccata di culo a Uomini e donne Over.

Ho deciso di abbandonare il vecchio account “storico” perché ne avevo fatto un vero diario, pieno di me e della mia storia personale, regalando all’azienda di Zuckerberg interazioni, contenuti e molte gioie, per poi scoprire che i miei dati non erano al sicuro e che i miei umori, i miei scazzi, le mie prese di posizione venivano archiviati e analizzati, forse venduti per fini politici.

Un giorno, il capo supremo di Syndrome mi disse:

“perché non la smetti di regalare tutto ciò che sai fare a Facebook e non scrivi solo per me?”

Non fa una piega ed è più facile da spiegare rispetto a “un giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana”. Così ho cancellato una decina di anni di foto, video, reazioni, cose che mi son piaciute, it’s wonderful, good luck my babe…

Prima è d’uopo scrivere un messaggio d’addio in bacheca per salutare tutti, evento che porta un po’ di movimento misto panico ingiustificato nella comunità dei “vecchi” contatti, anche quelli che non ricordano neanche di averti mai inviato una richiesta e messi alle strette dovrebbero ammettere di non sapere chi diavolo sei!

All’improvviso si scatena un caos complottista che si traduce in messaggi di cordoglio (è stato bellissimo, ripensaci, posso fare qualcosa, torna presto), amici perplessi che dimenticano di poterti chiamare al telefono e ti taggano nei gruppi per “appartarsi” tra pochi intimi e sapere cosa ti spinse al gesto estremo, messenger usato come ultimo avamposto disponibile per un “che è successo?????” e naturalmente qualcuno che passa lì per caso come un anziano che scruta un cantiere in lontananza e un like te lo lascia per cortesia.

Ma non staremo esagerando con tutta ‘sta socialità?

Questo non è un invito a vedersi tutti insieme nei bar o nei parchi perché, insomma, che c’avremo mai da dirci tutti quanti? Perché se quando ci incontriamo il massimo che possiamo offrirci è un meme glitterato e un par de gattini, suggerirei di ritrovare un dialogo più classico, che richieda il tempo necessario per leggere tranquillamente un articolo, farsi due risate e riflettere su cosa faremmo al posto di chi scrive.

Ho ragione?

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