Oggi ho avuto paura.
Ero andata con Matteo, due anni e due mesi, a fare la spesa in auto al supermercato.
Giornata torrida, pre-feriale e in giro quasi nessuno.
Arrivata al parcheggio, mentre liberavo mio figlio dal seggiolino ed ero china su di lui, gli ho dato in mani le chiavi dell’auto, per giocare.
Stavo armeggiando, la cintura si era bloccata e sudavo, piegata in avanti. All’improvviso ho percepito una figura che si avvicinava e, alle mie spalle, è comparsa una zingara con un fagotto tra le braccia.  Mi ha chiesto “un euro, per i bambini”.
D’istinto, mi sono raddrizzata e ho chiuso la portiera dell’auto, frapponendomi tra lei e mio figlio. Quella donna non mi piaceva, la vedevo spesso nel parcheggio. Senza contare tutte quelle belle storie, leggende metropolitane o meno, di bambini sottratti ai genitori in un momento di distrazione.
Insomma. Ho chiuso la portiera di scatto, le ho detto infastidita di allontanarsi, che non le davo niente, mi sono girata e… ho visto mio figlio che mi sorrideva aldilà del vetro.
Era felicissimo.
Sembrava Jack Nicholson in Shining, stesso sguardo folle e divertito.
In due secondi, guardandomi scintillante, con gioia infinita, ha bloccato da dentro, usando il telecomando, tutte le quattro portiere dell’auto: clack clack clack. Chiuso dentro.

Che fare?
Ho iniziato a parlargli con voce suadente: “Schiaccia di nuovo, amore, schiaccia il bottone”. Ma il mio bimbo non mi ascoltava, anzi, ha sollevato in alto le chiavi e, sempre ghignando soddisfatto, le ha fatte cadere sul tappetino.
Analisi della situazione: mio figlio bloccato dentro, in auto, sotto il sole rovente, con i finestrini alzati e senza possibilità di riapertura.
In più, ero sola, nessun conoscente in giro. Solo noi, la zingara poco distante, con il suo fardello in braccio e qualche altra auto ferma.
Un deserto.
Per fortuna avevo la borsa a tracolla, quindi ho tirato fuori il cellulare ed ho provato a telefonare a mio marito. Ma lui non rispondeva perché era in giardino che tagliava l’erba. Non avrebbe avvertito nemmeno il Big Bang primordiale.
Ho chiamato quindi mia cognata, impegnata in negozio e le ho spiegato con voce ormai isterica la situazione. Lei, di premura, perché aveva gente alla cassa, mi ha detto “Ok, vado a casa tua a prenderti le chiavi di riserva”.
Sono passati i minuti, i quarti d’ora, le mezzore, i cicli keynesiani, le aurore boreali, le sferiche concatenazioni degli eoni.
Matteo in auto si agitava sempre di più, paonazzo, irritato. Aveva caldo, sudava: voleva liberarsi dalle cinture, piangeva, mi vedeva aldilà del vetro e non capiva perché non lo liberassi.

L’ho fatto distrarre disegnando con il dito figure di animali sul vetro del finestrino e intanto pregavo tutte le divinità conosciute e promettevo loro ex-voto e pellegrinaggi di espiazione dei miei peccati. Un’attesa massacrante e un crescendo di ansia che solo una giovane mamma alle prime armi può sperimentare.
Ho avuto anche il modo di riflettere su come avessi reagito d’istinto ad una minaccia immaginaria, andandomi a ficcare in una situazione di pericolo ben più reale e concreta.
Dopo un tempo che mi è parso dilatato all’infinito, è arrivato mio marito e ha riaperto l’automobile. Ho calmato mio figlio, ormai sfinito, paonazzo e assetato, quindi siamo ritornati a casa. Fine dell’incubo, che sollievo.
Ricordo di avere incassato anche qualche bel complimento per aver lasciato le chiavi in mano al mio figliolo. Ma niente ti può toccare quando c’è il lieto fine.
Alla sera, Matteo aveva 38 di febbre.

Io 39.