ratto americano

L’ho visto sul prato.

Era una mattina gloriosa di sole, uno di quei momenti in cui la natura esce dalla vasca da bagno dopo mesi di piogge e scopre il suo corpo nudo e lucido. Tutto brillava: i fili d’erba, le azalee in fiore, i becchi dei picchi sugli alberi.

 

Ci siamo fissati per un lungo momento, consapevoli del fatto di essere gli unici esseri viventi in grado di contemplare quel paesaggio in quella piega spazio-temporale, da quella angolazione. Poi lui ha reclinato la sua piccola testa grigia e ha ricominciato a occuparsi di faccende più pratiche.

Un ratto. Non solo un ratto: un ratto nel mio giardino. Nel mio scintillante giardino americano a primavera.

Ognuno ha le sue paure rispetto al mondo animale. Poi ci sono gli intrepidi che si attorcigliano i pitoni attorno al collo o adottano le tarantole per la compagnia egregia che offrono in termini di conversazione. Io ho solo l’imbarazzo della scelta, perché trovo ripugnante un’ampia serie di creature striscianti o dotate di piedi in eccesso. In compenso affronto con una certa serenità la convivenza a distanza.

gecoNei mesi in cui avevo vissuto a Singapore, ad esempio, avevo assistito con grande interesse all’evoluzione di un geco che viveva sul soffitto della mia camera da letto.

In poco tempo (molto meno di quello richiesto da un umano) aveva coronato il suo sogno d’amore e aveva messo su famiglia.

Vi siete mai chiesti come sia un geco femmina incinta?

Esattamente come ce lo aspetteremmo: con la pancia grossa. Il geco, che per comodità chiameremo “geca”, gonfiava a dismisura. Prima di capire che il gonfiore era frutto del peccato, però, avevo temuto per la sua vita. Non essendo un’esperta del settore, inizialmente avevo sospettato una malattia esotica.

gechinoÈ solo quando l’ho vista percorrere il soffitto a passetti frenetici avanti e indietro che sono stata colta da un improvviso déjà-vu. Aveva le contrazioni!

Di lì a poco, mi sono ritrovata in una nursery di gechini rosacei, degli affarini mollicci con le zampe a fiorellino.

Da quel momento, l’incanto si è spezzato. I figli, si sa, non stanno mai fermi. Avremmo potuto scambiarci una pacca solidale sulla spalla, io e lei, se solo avesse avuto una spalla.

Si intrufolavano in ogni anfratto della parete, correvano come pazzi in ogni direzione. Mamma geca aveva il suo bel da fare a raggrupparli, ma quelli scappavano appena girava l’occhio con palpebra mobile.

donna Insomma, è stato durante uno di questi momenti di insubordinazione, che è capitato l’incontro ravvicinato.

Uno dei pargoli mi è piombato nel letto. Un tuffo di testa dal soffitto, mai vista una cosa simile. E da osservatrice divertita sono diventata una specie di cavallo imbizzarrito e privo di controllo, il cui unico obiettivo era disarcionare il cavaliere. Solo che il cavaliere era sparito tra le pieghe della coperta, e non c’era verso di farlo riapparire.

L’episodio si è concluso con il solito intervento delle forze dell’ordine: un comitato di famigliari che non ha mancato di deridermi.

Da quel giorno, ho capito che le distanze hanno il loro valore aggiunto: mi sento in controllo finché non sono costretta a un’interazione, soprattutto se a livello tattile.

Il ratto era entrato all’interno di uno spazio vitale già troppo piccolo per essere condiviso, la striscia di erba che costeggiava la terrazza. Il prossimo passo sarebbe stato la terrazza.

Poi avrebbe varcato la porta di casa strizzandomi l’occhio e sedendosi accanto a me per una tazza di tè. Sapevo come andavano queste cose, geco docet.

Così ho impugnato il telefono e ho chiamato la disinfestazione. Ma non una società qualunque: l’azienda di specialisti di altissimo livello che avevo trovato dopo una lunga selezione su Internet.

venditoreDall’altro capo del telefono mi ha risposto una voce maschile.

Non sono ancora un’esperta di accenti americani, ma era un tizio del Sud, con una voce metallica da commentatore radio anni ’50. Me lo immaginavo sulla sessantina, con i capelli biondi impomatati, i pantaloni a vita alta e una camicia a quadri col colletto a punta.

Mentre ero lì che almanaccavo su quale fosse la sua provenienza, gli è bastato sentirmi dire “Hello” per individuare la mia.

Francamente, trovavo la cosa un tantino azzardata. Poteva concedermi un margine di dubbio, confondermi con una parigina di seconda generazione, o con una turca, o una slovacca: aveva ampia possibilità di errore. Ma localizzarmi così al primo colpo era decisamente scortese.

“Che accento meraviglioso!” mi ha detto. “E pensare che sono stato in Italia poco tempo fa!”

Sapevo dove voleva arrivare. Alla solita filippica sul tour consolidato Venezia, Firenze, Roma. Non gliel’avrei permesso, soprattutto dopo che non mi aveva lasciato sguazzare nel mare delle nazionalità alternative.

oz E poi non avrei aspettato che mi facesse descrivere Torino come “quella città a un’ora di treno da Milano”: equipararla a un non-luogo o, peggio ancora, a un luogo che esiste solo in funzione di un altro.

Persino il Regno fatato di Oz aveva una dignità geografica più precisa. No, non avremmo parlato dell’Italia. Non questa volta.

“Ho un problema di ratti.” Ho tagliato corto. “Ne ho uno qui di fronte a me. Non è entrato in casa, ma…” Volevo dire: lo farà presto. E sarà troppo tardi, dovrò preparargli il tè e condividere le tovagliette buone.

“Ah! Lei ne avrà visto uno, ma non si muovono mai soli. Ne arriva uno, e poco dopo sono centinaia.”

Un brivido mi ha percorso le narici.

“Ma non si preoccupi! Ha chiamato il posto giusto. Noi abbiamo un’esperienza ventennale, conosciamo le loro abitudini, li staniamo, li seguiamo, li catturiamo. Lei non vedrà mai più un ratto in vita sua”

Accidenti. Avevo trovato l’azienda perfetta.

“E come farete?”

“Abbiamo un sistema collaudato. I nostri esperti… bla bla… e bla bla…”

Per venti minuti abbiamo passato in rassegna i mille modi per estirpare tutti i roditori dalla faccia della terra.

Poi avremmo buttato via ogni traccia della loro esistenza, dalle foto ai documentari, e ci saremmo dimenticati persino della loro coda glabra e grassoccia. Un giorno sarebbero riapparsi sotto forma di leggenda, un po’ come i draghi. Ma nessuno ci avrebbe mai creduto davvero.

scena del crimineIl metodo era semplice. Gli esperti di derattizzazione avrebbero tracciato un perimetro attorno alla casa, come sulle scene dei delitti. E il cerchio magico ci avrebbe protetto da qualunque incursione esterna. Che fosse un campo di forza o una rete di trappole mortali non era rilevante, tant’è che non me l’ha spiegato.

L’importante, alla fin fine, era che quell’uomo sapeva il fatto suo, e che, come mi ha ribadito più volte durante la conversazione, trovava la mia pronuncia “affascinante”. Dovevo avere un modo deliziosamente italiano di dire “rat”.

Mi ha fissato un appuntamento per il giorno successivo.

Ero veramente colpita dall’efficienza e dalla tempestività. Non avevo fatto in tempo a formulare il problema che era già praticamente risolto.

salopetteQuando ho aperto la porta all’ora data, però, mi sono ritrovata di fronte un solo uomo. Non la squadra che mi era stata preannunciata. E il resto del team?

Li avevo immaginati in divisa, con una tuta di decontaminazione e apparati sofisticatissimi.

Mi era stato promesso un esercito, non un misero soldato. In salopette, per di più.

Chi credeva di spaventare vestito così? I ratti si sarebbero fatti una risata a crepapelle. Una di quelle a gambe all’aria come i genitori di Peppa Pig.

“Allora Signora,” mi ha chiesto sbadigliando. “Dove l’ha visto?”

“In terrazza” gli ho detto con tono grave, realizzando che non nominava neppure l’animale per nome. Come se non esistesse. “Proprio qui”. Gli ho mostrato la mattonella esatta con un dito. Se non era evidenza quella.

“Ma i ratti sono entrati in casa?”

“No” ho scosso la testa. L’avevo chiamato precisamente per evitarlo.

“Quindi lei non ha ratti vivi o morti in casa?”

Sembrava deluso. Non mi aveva neppure sfiorato il pensiero che un ratto potesse passare ad altra vita all’interno delle mie pareti domestiche. E come sarebbe dovuto capitare? Morte spontanea o crepacuore?

ratto“Noi possiamo solo rimuovere i roditori dagli ambienti chiusi.”

Ha alzato le spalle, guardando verso l’orizzonte. “Per quelli all’esterno, Signora, ne è pieno il mondo. Dobbiamo imparare a conviverci.

Lo fissavo frastornata come se mi mancasse un anello fondamentale del ragionamento.

E allora adesso cosa avremmo fatto insieme? Avremmo giocato a scacchi, raccolto le fragole o stappato una bottiglia di champagne? Si poteva brindare allegramente all’ineluttabilità del fato e avremmo invitato il ratto ad alzare il calice per noi.

“Ma il suo collega mi ha detto che avreste provveduto… Mi ha parlato di trappole, e sostanze repellenti e…”

“Quella è una società di vendita, non sa nulla del nostro lavoro. Si metta l’anima in pace. I ratti sono biologicamente come noi. Qualunque sostanza nociva per loro, è letale anche per noi”.

L’omicidio di un ratto mi sarebbe costato un familiare. Questo mi stava dicendo.

“Ma lei può fare qualcosa?”

Non so cosa mi aspettassi a quel punto. Ma un intervento di qualunque genere sarebbe stato meglio della rinuncia su ogni fronte.

“Posso darle un consiglio”

Perfetto. Preferivo un consiglio a un futuro distopico in mezzo ai ratti.

briciole“Può evitare le briciole”

Così dicendo mi ha indicato un mucchietto scomposto di frammenti di cracker, il residuo untuoso di uno snack che i miei figli avevano abbandonato sul pavimento della terrazza in chissà quale epoca remota. Un’esca perfetta.

“La migliore precauzione è non lasciare tracce di cibo”.

Poi si è aggiustato una bretella della salopette, che a quel punto lo stringeva come un nastro adesivo, e mi ha lasciato.

Sola con i miei pensieri. Sola con il mio bagaglio di strategie per il futuro. Sola con il ratto che, dopo un consiglio del genere, tremava certamente di terrore dietro a un ciuffo d’erba.

E un giorno, quando saremo scampati alla minaccia globale dei roditori, potremo tutti ricordare le parole del saggio che ci ha aiutato a debellarla. Evitiamo le briciole.

[:]