Attenzione a dove metti i piedi in prossimità del Natale. Potresti inciampare in un elfo. O ritrovartelo dal parrucchiere, come mi è successo qualche giorno fa.

D’altronde il Natale non è un periodo ordinario, ma uno scombussolamento grandioso dei fili dell’esistenza. E con questo potrei quasi concludere, perché ci sarebbe ben poco da aggiungere. Se non fosse che lo spauracchio dell’elfo ancora mi perseguita: il suo cappello appuntito, quel colletto stellato abbinato ai polsini verdi, le morbide pieghe dei pantaloni alla zuava. Ma soprattutto loro: le scarpe arricciate all’insù. Scalpiccianti e molleggiate, pronte a spiccare piccoli, odiosi balzi nella mia direzione.

L’aiutante di Babbo Natale mi aveva individuata da lontano. Chi poteva mai essere quella signora che si aggirava con aria smarrita per le vie di Seattle?

Mentre i negozi esplodevano di addobbi e la gioia sprizzava da ogni singola lucina, io stridevo come un pezzo di prezzemolo incastrato tra i denti. Tutto in me era spento, a partire dai capelli. Avevo il mio cappotto di ordinanza, quello nero-snellente, con pantaloni, maglia e scarpe abbinati, non sia mai che i piedi appaiano grassi quando il resto è magro. Ma se sui vestiti potevo ancora giocarmi la carta dei contrasti, accostando le tenebre al pallore, lo stesso non valeva per la mia testa. L’ultimo parrucchiere americano aveva fatto di me ciò che voleva, creando un’acconciatura a casco di banane che, col tempo, si era afflosciata in una matassa apatica.

Con occhio vigile, per qualche settimana, avevo scrutato le passanti e le mie conoscenze bionde, cercando sulle loro capigliature un’idea per rivoluzionare me stessa. Ma invano. Credo che a Seattle ci sia una setta occulta che costringe le adepte a farsi la coda di cavallo, nascondendo i colpi di sole a occhi indiscreti.

Alla fine non mi era rimasta che una risorsa: il lancio nel vuoto. Ho cercato l’indirizzo di un parrucchiere e ho iniziato a camminare su e giù davanti alle vetrine del negozio, come un cane che fiuta la selvaggina prima di addentarla. Da fuori pareva promettente: uno scintillio clinico di luci bianche, i pavimenti puliti a specchio. Nemmeno l’ombra di un pelo per terra.

Col cellulare in mano, sembravo del tutto a mio agio, presa da una conversazione immaginaria con un interlocutore inesistente. Intanto adocchiavo le donne sotto i ferri degli stylist, sedute sotto il casco o con i capelli impregnati di tinta.

Si compiva il miracolo? L’onda si scioglieva in una cascata di boccoli? La frangia seguiva l’arcata delle sopracciglia? Ma soprattutto: c’era nuovamente luce dove un tempo vi erano solo alghe? Mentre il mio passo indifferente coglieva barlumi di risposte tra i vetri, mi sono sentita toccare una spalla:

“Vuole entrare?”

Ce l’aveva con me. Era una delle pettinatrici, impeccabile nel candore della divisa.

Ho farfugliato qualcosa al telefono, sperando che non notasse che era spento. Poi ho messo giù con aria professionale.

“Stavo aspettando un’amica, ma forse è indisposta.”

“L’ho vista dalla vetrina!” mi ha confermato con un sorriso saputo, come se la scena si fosse ripetuta più volte davanti ai suoi occhi millenari. “Se vuole abbiamo un buco in questo momento. Vicino al Natale è difficile, di solito siamo pieni, ma oggi una cliente ha cancellato.”

La solita sfacciata fortuna. Con le spalle al muro prima ancora di aver esaminato la scena. Comunque sembrava una di quelle combinazioni impossibili da ignorare, come la congiunzione di Marte con Nettuno o il gorgonzola con la polenta.

Così ho accettato, mettendomi nelle mani della sconosciuta.

Dietro di me, lasciavo uno scampanellio natalizio che sapeva di presagio.

In men che non si dica mi sono ritrovata decine di ciocche avvolte in pacchetti di stagnola. Ricordavo un pranzo take-away, pronto per l’asporto.

Completato l’ultimo salamino metallico, mi ha osservata critica allo specchio. Non era soddisfatta. Credo che Monet avesse avuto lo stesso sguardo prima dell’ultima pennellata sulle Ninfee.

Presa da un impulso, ne ha aggiunto qualcuno sui pochi centimetri di scalpo ancora visibili. Ecco. Ora poteva respirare. Da pasto pronto a creatura mitologica, i tentacoli argentei mi avevano trasformata in un’opera d’arte.

C’è una certa intimità che si instaura nei luoghi dove si lavora sulla bellezza, quando ci si lascia cullare dal genio creativo altrui. Quella sala, per quanto spoglia, non ne era immune. Sentivo che potevo riversare le mie confidenze affidandomi ai vapori dello shampoo, al rumore consolante del phon.

Anche le altre clienti parevano della stessa opinione. Nessuna era conciata come me, però. Erano tutte venute per un semplice taglio e piega. La signorina mi aveva detto che il mio colore di capelli, invece, “l’aveva ispirata”. Una menzogna notevole, ma quel genere di menzogna che ti fa tornare dalla parrucchiera la volta seguente. Tutte noi vorremmo essere delle muse ispiratrici.

Mentre chiacchieravamo dei fatti nostri, con la coda dell’occhio ho visto alcune figure avvicinarsi al negozio. Canti gioiosi di Natale accompagnavano i loro passi, insieme a tintinnii di campane e un sottofondo radiofonico. Si erano fermati alla porta e gorgheggiavano all’ingresso. Indossavano vestiti improbabili, dal quadrettato al rosso lava incandescente. Qualcuno aveva una cuffietta di pizzo in testa.

“Che meraviglia!” ha esclamato una cliente. “Sono venuti a cantare i Christmas Carols!”

Ora, io non ho nulla contro le tradizioni natalizie. Riscaldano gli animi e coccolano il fanciullo che è in noi. Ma la mia particolare situazione estetica mi faceva sentire un tantino a disagio.

Il salone di bellezza è la perfetta realizzazione di una società utopica: all’interno si è tutti uguali, a dispetto degli orrori impiastricciati su faccia e capelli. Nessuno batte ciglio. L’intrusione di un estraneo, però, aveva l’effetto di una violazione profonda in uno spazio privato.

Soprattutto se l’estraneo era un elfo.

Tutto rosso e vellutato, col ghigno diabolico di una divinità demenziale e perversa, ha iniziato a saltellare verso di me cantando a squarciagola “A Holly Jolly Christmas”. Dietro di lui, il resto del gruppo ha intonato un coro con mosse sincronizzate: mani su, mani giù, piccolo applauso, giravolta.

Io ero perplessa, le tradizioni americane mi sono ancora sconosciute. Forse era un’usanza di Seattle.

Ma le clienti erano più perplesse di me, lo si vedeva chiaramente dagli occhi sgranati sotto i bigodi. Anzi, l’incursione più che divertirle sembrava creare loro uno stato di tensione.

All’approssimarsi del ritornello finale, l’elfo ha estratto magicamente un microfono e me l’ha messo all’altezza del mento, spronandomi a unirmi a lui.

D’un tratto si è spalancata la porta ed è entrata una troupe televisiva, con tanto di videocamere in spalla.

Per una frazione di secondo, mi sono vista proiettata negli schermi televisivi di migliaia di sconosciuti. Io, Medusa, nel calore delle loro case natalizie americane, vicino all’albero e ai pacchetti.

D’istinto, mi sono rannicchiata su me stessa, come quando l’aereo precipita e il pilota grida “May Day”. Sapevo di non sparire in quel modo, ma dev’essere lo stesso istinto infantile che convince i bambini a coprirsi gli occhi per nascondere il corpo.

Poi lentamente la ragione ha preso la meglio.

Che si trattasse di un provino di X Factor, di una Candid Camera o di un servizio del TG locale sul Natale poco importava.

C’ero ancora io sotto tutta quella stagnola.

Ho sollevato il viso, lo sguardo rivolto all’obbiettivo. Ho sfoderato un sorriso gioviale, come l’italianità richiede all’estero. E, con la spavalderia di una presentatrice consumata, ho lasciato il mio messaggio ai posteri in mondovisione: “Happy Christmas.”[:]