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armi

Poca gente e qualche preghiera.

Non mi aspettavo più di questo dalla fiaccolata a sostegno delle vittime organizzata nella mia città all’indomani della strage nella scuola di Parkland, Florida, a migliaia di chilometri di distanza da casa mia, dove un ragazzo di diciannove anni è entrato nella sua ex scuola superiore e ha ucciso con un fucile d’assalto quattordici studenti e tre insegnanti.

Pulita la coscienza, fatta la beneficienza – pensavo mentre mi mettevo in macchina per andare alla fiaccolata, poi basta, questa gente passa subito ad altro, fino al prossimo massacro.

Con tutti i fucili automatici in circolazione, loro pregano!

E io, straniera con figli nella scuola pubblica americana, sarei tornata a casa agghiacciata. E non solo perché è febbraio e fa ancora freddo.

Invece, pigiate nella mensa della scuola locale, ho trovato tantissime persone, tutte a dire che non se ne può più.
Gente determinata.
Le mamme incazzate, gentili ed efficientissime dell’associazione Moms Demand Action, che da anni si batte contro il proliferare delle armi da fuoco, gli studenti, le famiglie con i bambini.
Non è giusto che sia diventato normale, dicono gli studenti al microfono. Non è giusto che la nostra realtà quotidiana sia fatta di esercitazioni a scuola per imparare a nasconderci in caso di attacco con armi da fuoco. Basta.

Qualcuno attorno a me addirittura dice anche:
“Ma cosa ce ne facciamo del Secondo Emendamento della Costituzione americana (quello che ti dà il diritto di portare le armi), quando lo hanno scritto era ancora il diciottesimo secolo e si usavano le baionette”.

Durante la fiaccolata, una sopravvissuta al massacro di Columbine, S., ha ricordato come le vittime siano i morti e i feriti, certo, ma anche tutti parenti, che devono raccogliere i cocci di famiglie rovinate, e tutti i sopravvissuti.
Si dovrebbero includere nel novero delle vittime tutti i professori traumatizzati, i compagni di classe che non accettano di essersi salvati fino al punto di suicidarsi, anche molti anni dopo i fatti.
Quelli che a causa del trauma devono combattere con depressione, ansie, attacchi di panico per tutta la vita, oppure scivolano nella dipendenza dall’alcol o dalla droga.

Tutte cose che S. ha vissuto sulla propria pelle dopo quel terribile giorno in cui due studenti massacrarono tredici persone nella sua scuola.
“Era il 1999. Credevo che le cose sarebbero migliorate, invece sono peggiorate.”

L’emozione è palpabile, la respiriamo come il virus dell’influenza che aleggia felice fra di noi.
I presenti non credono ai loro occhi, “siamo in tanti”, dicono gli occhi. “Se siamo in tanti è solo perchè i ragazzi di Parkland hanno preso in mano la protesta – mi dice C., il mio vicino di casa che è qui con tutta la sua famiglia – se i ragazzi della Florida non si fossero così arrabbiati, questo non sarebbe successo. Sono i ragazzi che stanno smuovendo tutto.”

E’ così. I ragazzi sopravvissuti alla carneficina di Parkland con la loro rabbia hanno iniziato davvero a smuovere le coscienze delle persone. Hanno rilasciato dichiarazioni ai tg, hanno organizzato un tam-tam sui social network, hanno detto che non ne possono più dell’assuefazione a questa violenza.
Hanno detto “bisogna fare qualcosa”, subito. Qualcosa di efficace.
Hanno detto ai politici: parlatevi.

Di questo si discute alla fermata dello scuolabus dove accompagniamo i bambini più piccoli la mattina, di questo si parla al parco mentre si tira la palla al cane, per questo si posta sui social.

I ragazzi di Parkland hanno affittato tre pullman per andare fino alla capitale dello stato della Florida, Thalasse, a chiedere di cambiare le leggi, hanno indetto da subito una manifestazione nazionale per il 24 marzo a Washington.

Fanno un sacco di rumore. Si rivolgono direttamente ai politici.

La CNN li ha invitati in massa ad un dibattito pubblico che sembrava X Factor in versione funerale. Facevano domande dialogando con tre parlamentari della Florida, poi con la rappresentante della potentissima National Rifle Association o NRA. Guardandolo dritto negli occhi, gli studenti hanno chiesto a Marco Rubio, il potente senatore della Florida ed ex candidato presidenziale alle primarie repubblicane, di non accettare più i contributi elettorali della NRA.
Alla Casa Bianca i ragazzi hanno incontrato Trump, che era in modalità “ascolto” davanti alle telecamere e che per tutta risposta ha lanciato l’idea di armare gli insegnanti (WHAT?).

Hanno ispirato la coppia più figa del momento, Amal e George Clooney, a donare loro 500.000$ per sostenere l’organizzazione della marcia del 24 marzo. Anche Oprah li ha imitati subito con altri 500.000$ e altri seguiranno il loro esempio.

L’imperatore è nudo e tutti lo possono vedere quando un bambino punta il dito e lo dice a voce alta.

Dal 2012, quando a Sandy Hook, in Connecticut, furono massacrati 20 bambini di una scuola elementare, ci sono state in America 200 sparatorie nelle scuole.
Una a settimana.
Già 0tto nel 2018, e siamo solo a febbraio.

Ci sono quartieri dove una pallottola vagante ti può colpire mentre fai la spesa o esci da scuola.
Le donne americane rischiano 16 volte di più, rispetto ad altre donne dei paesi sviluppati, di essere ammazzate a colpi di arma da fuoco.

Ti verrebbe da buttarti nuda contro le macchine incastrate nel traffico di Washington, da andare porta a porta a dire ma di cosa stiamo parlando?

Ci sono troppe armi in giro, sono troppo letali, troppe stragi, ma non vedi? Ma a che ti serve un fucile automatico che non va bene neanche per la caccia? A giocare a sparare alle lattine nel cortile di casa?

Il tempo della frontiera del West è finito da un pezzo.

Perché posso comprare un fucile d’assalto al supermercato?

Eppure, anche stavolta, la realtà supera la fantasia, e quando Trump non trova di meglio che proporre di armare gli insegnanti per difendere le scuole dalle sparatorie ti chiedi se ci fa o ci è.
Come se anche gli insegnanti non potessero perdere la testa e falciare un’intera classe se quelli all’ultimo banco chiacchierano troppo o se hanno copiato il compito. Figurati poi se hanno disegnato una sua caricatura su un foglietto: almeno cento morti.

Mentre i politici si perdono in questioni di lana caprina, noi cerchiamo di adattarci a questo “new normal”.

Nel frattempo, ci sono persone che postano video in cui distruggono le loro armi, custodite per molti anni con amore e devozione, e diffondono gli hastag #oneless, #onlessgun, uno di meno, un fucile di meno.

Lo fanno in vari modi: trasformandoli in attrezzi da giardinaggio, segandoli in due col frullino, distruggendoli con il martello.
Ci sarebbe da sorridere, se non ci fosse da piangere.

Però, anzi, no: ogni ora che passa una multinazionale si unisce al boicottaggio della potentissima lobby della armi, dalla Hertz alla Best Western, da Bank of America a United Airlines. Basta sconti sulle tariffe, basta sale congressi per i raduni, basta sponsorizzazioni alla NRA.

Dei ragazzini stanno cercando di cambiare il mondo. Magari stavolta ci riescono.

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