Parlando sinceramente.
30 anni, laureata in architettura, conosco due lingue, bionda, skinny e con due occhioni così azzurri che Barbie si smonta da sola e butta i pezzi ai gabbiani nella discarica.
Ma dato che, in Italia, la mia corsa al successo si preannunciava più breve di quella di Pistorius in cella d’isolamento, sono espatriata. Fatto male?
Perché, cocca, se hai skills come i miei, punti al Far East e a un lavoro importante, un’adeguata retribuzione e benefits.
Tradotto: vivere su un’isola, sole, mare, shopping…
Quindi, scusa, cazzomene dei benefits: punto direttamente a solemareccetera no?
E ce l’ho fatta. Filippine!
Vivo su un’isola (qui ce ne sono 7.107), sole (caldo della Madonna) mare sottocasa (e durante i tifoni, pure dentro). Lo shopping… beh, non so se sia un’usanza locale o se papà mi abbia viziata ma… ho scoperto che, per fare shopping, servono soldi. E che, qui, la mia laurea in architettura è utile come un gommone nel Sahara.
Due lingue, certo, come no. Tedesco e inglese.
Scolastici.
Mi son detta: ok, faccio la puttana.
No.
A parte qualche estimatore, qui impera lo standard pinay (il nome che si danno le donne filippine): brune, minute, tettute, dolcissime, disponibili, delle vere stronze insomma.
Ma, dopo qualche sbandamento, la mia superiore cultura occidentale mutuata dal gusto made in Italy ha prevalso e, analizzato il problema, ho trovato una nicchia in rapida espansione, dato il recente depauperamento delle risorse locali, dovuto all’export worldwide verso un particolare quanto strategico settore. Faccio la cameriera.
Sì, un’italiana che fa la cameriera per i filippini.
Finito di ridere? Bene.
Perché, dove pensate che vadano tutti i bamboccioni che avete partorito? Tutti stilisti e manager a Yokohama? A HangZhou? A Kuala Lumpur?
Più facile che sia vera una borsa Boteggha Feneta comprata a 3 pesos a Las Piñas (la Scampia di Manila) delle e-mail che vi mandano le vostre Blanca, Adelaide e Mariastocazzo. Tutte qui. Cameriere.
Ci si ritrova la domenica, davanti alla stazione, tutte vestite bene e stiamo lì. 32 gradi, 89% di umidità e parli di scarpe, aperitivi e di quelle bagasce delle padrone, ridi degli sfigati rimasti in Italia, sfotti le sfigate a cui manca l’Italia e poi ritorni in camera a masturbarti con il salvaschermo del Commissario Montalbano.
La roba più brutta è stata con la prima famiglia.
Cioè, questi qui pensano che, dato che sei italiana, cucini benissimo.
E infatti, al colloquio, è stata una delle domande-chiave della Signora (non essendo ancora assunta, era “Signora”. Dopo l’ok, diventa “Bagascia”).
Ha chiesto ma dandolo per scontato: ‘Cucini bene, no?’
Ho solo sorriso (glissando sul fatto che la mia vetta da chef era stata sciogliere il wasabi nella salsa di soia, da Nobu Milano, il tavolo alla finestra, grazie).
La prima sera avevano ospiti e, in menu, c’era il balut.
La Bagascia (ormai ero assunta) me lo ha comunicato quasi sottovoce.
Mi avesse detto: ‘Indovina chi ha scelto Bradley Cooper, tra me e Scarlet Johansson?’ non sarebbe stata così orgogliosa.
Il balut. Letteralmente, ‘uovo incartato’.
Mi dicono che va bollito.
Con slancio cosmopolita e rispettoso delle culture, mi son detta: ‘che piatto del cazzo’.
E avevo già bollito e avvolto il dodicesimo uovo in una sciccosissima carta di riso blu-rosa quando la Bagascia, semi-isterica, mi ha bloccata.
‘È tardi, cretina! Che figure mi fai fare? Devi ancora preparare le salse, i contorni… È alta cucina, questa! Ma che vi mangiate, al vostro Paese???’
Le ho fatto presente che anche noi, le uova le mangiamo bollite ma non facciamo tutto ‘sto casino. Al limite, le uova sode si tagliano a fette e…
E, così dicendo, ho rotto il guscio.
Ora, il balut non è un uovo avvolto in carta di riso.
E nemmeno allegre fette d’uovo sodo, cerchi bianchi e giallo sole.
È un uovo bollito quando l’embrione al suo interno è quasi del tutto formato.
Così apro l’uovo ed esce fuori la versione zombie di Titti il Canarino.
Io divento all’istante vegana, la Bagascia una maschera di vomito e tutti gli altri molto, molto agitati.
Ho quindi preso una pausa di riflessione, optando alla fine per delle oneste dimissioni.
Il tutto, fuggendo nella boscaglia, inseguita da familiari coi machete che mi chiamavano per nome.
Dice: ma come ti capivi?
Ma non parlavi solo italiano, tedesco e inglese? Certo.
Ma la Signora e il Signore avevano avuto 12 figli. Tutti mandati in Italia a fare i camerieri e che, ogni mese da 20 anni, mandavano i soldi a casa. Con questo pizzo, Signore e Signora si sono fatti la villa e la cameriera. Italiana.
E avevano imparato la lingua. Presumo per prenderci per il culo.
Adesso sto con una famiglia molto carina, prendo 20mila pesos al mese (quasi 382 euro!) e, se tutto va secondo i piani, tra 3 anni mi prendo un lowcost Manila-Malpensa (via Pechino/Groenlandia/Londra/Bari/Velletri) e torno a casa un 15 giorni.
Che le faccio schiattare, quelle quattro coglione delle mie amiche”.
(No, niente di tutto questo è vero. Ma sostituite le Filippine all’Italia e l’Italia alle Filippine. E la ragazza di 30 anni che andava da Nobu con me. Vi farete un’idea di come ci si sente, a essere a 10.400 km da casa e farvi da cameriere)
P.S.:  Ah, e prima di criticare il nostro balut, pensate alla pajata o al formaggio coi vermi sardo, cari i miei gourmet di ‘sto magkantot (è un termine filippino ma sono certa che intuirete il significato).