È di nuovo il momento.

Un rivolo di sudore mi scivola dal naso. Sono agitata, ma non voglio che nessuno se ne accorga. Devo essere forte. Più del solito.

Stringo ansiosamente il manico del carrello e parto, facendo lo slalom tra i banchi dei surgelati.

Questa volta andrà meglio, mi dico. Questa volta non mi farò trovare impreparata. Questa volta farò valere le mie ragioni.

Ci siamo. Davanti a me, il nemico. A separarci solo una lurida vetrinetta che, in tempi migliori, sarà stata trasparente, ma che ora a mala pena lascia intravedere le merci esposte. Scelta oculata, quella di lasciarla sporca. Nessuno vuole vedere quanti microrganismi si possono celare dentro a qualche vaschetta di olive, tofu o feta.

Intorno a me non c’è nessuno. È il mio turno. Alzo gli occhi, lentamente. Lei è lì, in annoiata attesa. La osservo per qualche secondo. Un guizzo nei suoi occhi mi svela che nemmeno per lei è un gioco.

Mi faccio coraggio e apro finalmente la bocca. Vomito fuori la mia richiesta, come se fosse una domanda d’aiuto. “Dueettidiprosciuttoaffumicatoinfettetagliatesottili”. Non mi ricordo nemmeno di chiedere “per favore”, da tanta è l’ansia.

Lei mi guarda. Immobile. Nulla fa presagire che voglia agire nei prossimi minuti.

Ripeto la mia richiesta più lentamente. Forse non ha capito. Del resto il mio inglese è tutto fuorchè chiaro e comprensibile. Scandisco bene ogni parola, accompagnandola con ritmati ed inequivocabili gesti. Un sopracciglio della mia interlocutrice si alza, impercettibilmente, ma io l’ho notato. Avrà capito? Ti prego, dimmi di sì. Dimmi che anche stavolta non mi toccherà sfoderare la tipica arroganza di chi pretende che ad un banco di gastronomia ti servano esattamente quello che chiedi e in tempi brevi!!!

L’attesa si prolunga. Lei si muove… avanza lentamente verso di me… io indietreggio, probabilmente per un istintivo moto di autoconservazione. Ma no, cosa vado a pensare? Tra me e lei c’è la vetrinetta, non mi farà nulla, sta solo prendendo il salume che le ho richiesto.

Con un cenno della testa me ne chiede conferma. Visto? E io che me la stavo facendo sotto… Che sciocca!!! Eppure non sono tranquilla. A disturbarmi c’è un rumore – no, non ci posso credere! È proprio QUEL rumore! – come se al di là del bancone stessero trascinando un quarto di bue morto e sventrato. Eppure non posso sbagliarmi. La commessa sta strascicando i piedi. Nemmeno il più menefreghista dei bradipi riuscirebbe a metterci tanto a compiere un percorso di ben 50 cm! Lei sì. Lei può.

Ho una mia teoria, comprovata da sei anni di esperienza: data una commessa di un supermercato nigeriano, a patto che indossi un paio di ciabatte infradito di plastica, esiste una relazione direttamente proporzionale tra la stessa e la lentezza con cui verrà servito il malcapitato cliente.

È sabato. Giorno di spesa. Anche oggi ce l’ho fatta. Ho la mia brava vaschetta di prosciutto, tagliato a fette, nella borsa della spesa. Sottili- aggiungerei volentieri. No. Inutile darvi false speranze. La commessa ciabattata in realtà non ha le competenze per tali prodezze.

Dopo quindici minuti di attesa, quando il rivolo di sudore aveva ormai raggiunto il mio alluce destro, con una smorfia di disgusto mi ha allungato un pezzo di polistirolo dove erano comodamente adagiate quattro bistecche di prosciutto affumicato, peso totale: 2,50 etti. “Che faccio: lascio?”, mi ha ringhiato. Lascia! Lascio anch’io.

La vittoria ha un sapore amaro, in fondo. Sa di affumicato.[:it]