Ogni tubino nero che si rispetti, ha una storia.
Il mio tubino nero ha una storia che viene da lontano: viveva a Philadelphia e apparteneva alla mia ex suocera.
Si dice che tra suocere e nuore non corra buon sangue, anche il correttore automatico del telefono sembra pensarla così, visto che mi trasforma sempre “nuore” in “muore”. Ma questa è un’altra cosa.
Dicevo. Tubino nero di Philadelphia della mia ex suocera, con cui i rapporti erano meglio che con mia madre -ma non apro la digressione su mia madre-. Era l’anno 2008. Vivevo a Philadelphia, Philly per i suoi abitanti. Una rivista di viaggi molto importante mi aveva dato un riconoscimento altrettanto importante, per il quale sarei dovuta andare a New York, Manhattan per la precisione. Qui avrei dovuto partecipare agli eventi di gala organizzati per l’occasione, stringere mani più o meno famose -ricordo di aver incontrato Paolo Rossi e ricordo di essermi presentata in questo modo: “nel 1982 avevo otto anni”- ma, soprattutto,  avrei dovuto VESTIRMI BENE!
Il luogo era la biblioteca pubblica di Manhattan ed era l’anno 2008, anno in cui uscì il film Sex and the City, la cui scena clou del matrimonio tra Carrie e Big era stata girata proprio lì.
Nel 2008 eravamo tutte un po’ Carrie, almeno a New York, almeno alla biblioteca pubblica di Manhattan.
Nel 1961 saremmo tutte state le protagoniste di Colazione da Tiffany, strimpellando Moon River sedute al davanzale di una finestra.
Non avevo un abito decente che andasse bene per l’occasione. Avevo soltanto un paio di stivali aderenti in finta pelle neri con tacco a spillo comprati sul sito di Victoria’s Secret, di cui andavo particolarmente fiera.
E qui entra in gioco mia suocera. Che, a dire le cose come stanno, aveva un armadio pieno di abiti eleganti e molto costosi che un solo suo vestito costava quanto il mio guardaroba.
Ricordo che mi mostrò diverse scelte, tra cui questo tubino nero, semplicissimo, al ginocchio, senza fronzoli. Appeso alla gruccia sembrava un abito come tanti. Ma mi stava perfettamente, mi toglieva quei chili di troppo, contro cui combattevo da una vita, mi accentuava le curve e nascondeva i difetti.
Con quell’abito ero materiale da biblioteca pubblica di Manhattan.
Mi stava talmente bene che mia suocera decise di regalarmelo.
A New York avevo preso un appartamentino minuscolo per la notte, che distava più o meno trenta isolati dal luogo convenuto. Era ottobre e si stava benissimo. Ero a New York e a New York si cammina, solitamente. Si cammina anche sui tacchi a spillo e io e decisi di camminare: “Spirito di Carrie e del suo alluce valgo prega per noi”.
“Trenta isolati di New York non sono come quelli di Philadelphia” ho pensato mentre uscivo dall’appartamentino, con il borsone per il cambio, e le Doctor Marteen’s da indossare sulla via del ritorno.
I primi tre isolati li feci a testa alta, capelli freschi di parrucchiere, leggeri e svolazzanti, come leggera e svolazzante mi sentivo io. Al quinto isolato ho cominciato a maledire lo spirito di Carrie e del suo alluce valgo, perché insomma, i trenta isolati newyorkesi son pur sempre trenta isolati, soprattutto perché il caldo di quel giorno di ottobre era particolarmente anomalo.
Al settimo isolato i miei piedi hanno cominciato a chiedere pietà ma io, indefessa, insistevo nel continuare a camminare, pur sentendomi decisamente meno leggera, svolazzante e profumata di quando ero uscita. Al decimo, con la lacrimuccia che usciva dall’angolo di un occhio, decisi di issare bandiera bianca e allungare la manina per chiamare un taxi.

Alla fine dell’evento, che si è poi rivelato un successo, ho infilato subito le Doctor Marteen’s, sotto il tubino, con ancora addosso i collant a rete, con quell’aria un po’ elegante-sfatta che fa tanto radical-chic, di chi è stato a un evento di gala ma vuol mantenersi umile (no, non è vero, i miei piedi chiedevano pietà) e sono corsa alla stazione per tornare alla mia cara Philly.
Quel tubino nero, che era nascosto in un guardaroba, che era riuscito a entrare in un luogo bellissimo, che aveva incontrato persone più o meno famose, è qui con me, in Italia. È una delle poche cose che ho portato quando ho ricominciato la mia vita qui, dall’altra parte dell’oceano. Ancora mi sta da Dio, ancora lo indosso. L’ho fatto ieri, ci ho recitato dentro, a teatro.
Ogni tubino si dice che abbia una storia. Il mio ha attraversato generazioni e oceani, e fusi orari, e variazioni di peso. Ed è ancora bello come la prima volta che l’ho indossato.