Una donna romana a mesi da un aborto terapeutico, scopre che il feto che portava in grembo è stato tumulato in un apposito campo di “non nati” al cimitero Flaminio. Sulla sepoltura una croce cristiana con il suo cognome.

La donna si sfoga in una pubblica denuncia su Facebook, perché tutto il dolore che ha provato quanto pare non basta e allora il burocrate glielo lo ricorda in una piccola croce che porta il nome di lei che madre di quel feto non è mai diventata.
È la legge, signore mie, e la legge fa schifo quando la si mescola con le lacrime.
Prima della 20ma settimana siamo “il prodotto del concepimento” e quindi finiamo in un inceneritore insieme a tonsille ed appendici.
Fino alla 28ma settimana, ci metteranno in una fossa comune al pari di un arto amputato.
Dopo la 28ma settimana avremo una tomba e un nome forse, come fosse un premio di consolazione per non aver mai visto il sole.

Da bambina in uno di quei campi mia madre mi ci aveva portata. Un po’ scostato dalle altre tombe c’era il campo del limbo, perché una distorta credenza religiosa usava inumare i bambini mai nati in uno spazio indefinito tra il cielo e la terra.
Da bambina li avevo visitati, perché una cuginetta era nata morta e lì era stata seppellita.
Emma Maria morta senza battesimo e senza estrema unzione, che la pietà è un lusso riservato ai vivi.
Abolito finalmente dal Papa nel 2007, il limbo era una specie di punizione data ad un innocente nato e morto senza colpe.
Eppure la colpa a qualcuno la dottrina l’aveva data e ci scommetterei alla donna.
L’abolizione fu piuttosto travagliata ma si decise di procedere anche perché, cita il documento pontificio, è «un problema pastorale urgente». Perché il numero dei bambini morti senza il sacramento del battesimo è in aumento e anche perché molti genitori non sono cattolici e infine, perché molti bimbi sono «vittime di aborti».

Eccola qua la nostra colpa, tanto vale piantarci una croce sopra.

La notizia della donna romana è fresca di giornata, ma la questione è vecchia, che nel 2015 c’era stata una polemica simile nella mia Torino. Al posto del nome della donna però, al Cimitero Monumentale nel campo dei non nati, sulle piccolissime lapidi erano stati scritti nomi affibbiati a caso.
Paolo e Carla che magari sarebbero stati Lorenzo e Giulia. Martina e Giuseppe che magari papà e mamma avrebbero voluto Chantal e Marco.

Chissà che nome avrei dato io ai miei figli.

Il mio codice ISTAT è PARA 0030.
Para, ossia la parità di gravidanze, è un gelido parametro che definisce la storia ostetrica di una donna.
Il primo numero sta per il numero di parti a termine dopo la 37ma settimana di gestazione.
Il secondo per quelli pretermine tra la 20ma e la 37ma.
Il terzo è quello che indica le gravidanze perse e l’ultimo sono i bambini nati vivi.

Il mio codice è PARA 0030: dove 3 sono gli aborti spontanei e 0 è quello che ho tenuto tra le braccia nemmeno un secondo.
Un codice statistico gelido come un tavolo operatorio, come il marmo di un obitorio e non mi serve una croce in un campo a ricordarmi tutto quello schianto.

Dell’ultima volta non posso scordare il sangue e la ginecologa con l’ostetrica e tutti che correvano mentre sul pavimento del piccolo ospedale, la vita fuggiva via tra le mie gambe.
Della penultima la compassione dell’infermiera, che mi accompagnava in sala operatoria e mi posava una mano sugli occhi per non vedere le culle dei neonati.
Della prima un medico che rimpiango di non aver preso a calci in culo, quando mi disse che se avevo perso il bambino era solo tutta colpa mia.

Non mi serve una lapide per ricordare tutto questo male.
Mi serve rispetto ed oblio.
Rispetto, serve rispetto per ogni donna e rispetto per ogni scelta, perché anche un aborto volontario porta con se lo stesso identico immenso dolore.

Non era destino, non per me e non per altre e che quei campi non divengano mai il luogo della colpa di noi donne inadatte ad esser madri.
Lasciateci dimenticare di non essere madri, lasciateci il diritto a scegliere cosa farne del nostro amore così come dei nostri ripensamenti.
Non ci serve un luogo della memoria, che ci abbiamo messo tanto ad asciugarci le lacrime.

Sono la Principessa Astronauta e la mia culla sull’astronave è rimasta vuota ma, io non sono guasta.
Se mi chiederete come si supera tutto questo vi risponderò che non si supera, si va avanti.

Testo tratto dal blog La principessa astronauta