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kurt cobain

Il 5 aprile ricorre l’anniversario di morte di Kurt Cobain. Nel 1994 avevo quasi vent’anni, li avrei compiuti poco più di un mese dopo.

Faccio parte della Generazione dell’Angst, che in inglese indica quella rabbia post-adolescenziale tipica dei nostri anni.

La rabbia di chi non sapeva per cosa lottare, negli anni ’90. La rabbia perché erano finite le lettere dell’alfabeto, nel declinare le generazioni. Ci avevano preso la generazione X, quella Y, quella Z.

A noi, era rimasta la rabbia. La Angst Generation.

Ci avevano già preso le contestazioni studentesche, le rivoluzioni e le controrivoluzioni, la cultura e la controcultura. Ci avevano servito il benessere su un piattino d’argento. Eravamo arrivati tardi, eravamo nel Paese sbagliato, nel periodo sbagliato, eravamo l’incarnazione di ciò che sarebbe arrivato.

E non ce lo saremmo lasciati scappare.

Arrivavamo da un apparente benessere. Eravamo in fase transitoria post-paninara.

Alla fine degli anni ’80 smettemmo i giubbini Moncler, le timberland, le borse Naj Oleari per indossare le camicie di flanella a quadrettoni rosse e nere e gli anfibi e cercavamo altri ideali.

Almeno, di ideali volevamo averne, ma non ci sentivamo né carne né pesce.

E poi, è arrivato il grunge. Ci rappresentava, con tutte queste sensazioni e sentimenti, e senso di disadattamento mentale e sociale che sentivamo, pur vivendo nel nostro apparente mondo ovattato del nostro apparente benessere firmato. Forse lo era, davvero ovattato, sicuramente firmato, ma sentivamo la rabbia di non sapere cosa fare, e come farlo. Perché l’avevano già fatto. E forse l’avevano fatto meglio.

Ed è arrivato Kurt Cobain. Che può piacere o no, ma ha svegliato tutta la rabbia che avevamo inespressa e l’ha messa sotto forma di parole e musica, e ce l’ha urlata tutta addosso. E noi l’abbiamo presa tutta.

Il simbolismo ci stava tutto. Nel gesto estremo di Kurt Cobain noi ci abbiamo visto l’esplosione -in senso letterale- dell’angst.  Noi ci abbiamo visto la perdita degli ideali, deboli, flebili, che non avrebbero mai potuto essere paragonati agli ideali che c’erano stati prima di noi. Noi, noi però c’eravamo. Eravamo persi, a vent’anni, è vero. Cercavamo la nostra strada. Ma c’eravamo. Soltanto, non sapevamo a che ora saremmo arrivati a destinazione – ci avrebbero aspettato per cena, o si sarebbero mangiati anche gli avanzi?-

Noi, della generazione dell’angst, noi, con l’ideale di crearci un ideale, noi, che non avevamo più lotte per cui lottare, cercavamo un angolino. Cercavamo un qualsiasi posto che sentissimo come “nostro”. E lo trovammo nella voce di Kurt Cobain e, paradossalmente, nel suo gesto.

Noi, che a quarant’anni, con le nostre carriere, le nostre famiglie, che ci sentiamo ancora un po’ disadattati, forse non riusciamo a trovare ancora la nostra strada. Ma, alla fine, pur essendo fondamentalmente ancora persi, ci siamo goduti i nuovi posti che abbiamo conosciuto, e che abbiamo finito per chiamare “casa”. E Kurt Cobain è ancora lì, ogni cinque aprile, a ricordarci quell’urlo, tipico di noi, della Angst Generation.[:]