Grazie alla pandemia, il popolo italiano ha conosciuto una nuova forma geometrica: la linea, una serie infinita di punti che si succede in modo continuo. In senso sociale, si parla di fila.
Noi, che conosciamo il significato di assembramento già dagli antichi romani quando apriva una nuova bancarella nel forum del mercato, siamo ora costretti a disporci in modo più ordinato per provare una nuova esperienza emozionale: fare la coda.

E anche se il Governo ci dice di stare a casa, non aprire all’addetto del gas senza cartellino, stare a 1 metro di distanza, non accettare caramelle dagli sconosciuti e quant’altro, prima o poi dobbiamo uscire, e quando lo facciamo ci dobbiamo disporre in fila. 

Io tutte le mattine partecipo a un rave party: centinaia di genitori si riversano nel cortile della scuola per accompagnare i pargoli a lezione. La polvere del giardino, calpestata da decine di scarpe insieme, fa l’effetto nebbia nei concerti. Procediamo in direzioni lastricate con le transenne di metallo, proprio come nei live della mia giovinezza; solo che in fondo alla strada le luci del furgone con panini ai wurstel vengono sostituite dalla volante della polizia, che passa a vedere se hai la mascherina a pois o se hai messo quella abbinata alla sciarpa. Speri ogni volta di veder comparire il cantante in piedi sopra lo scivolo, con le coriste sulle altalene e il bassista che fa capolino dallo sgabuzzino del custode, ma nulla….le strisce a righe bianche e rosse non servono a separarti dal palco. Individui rassegnata la fila della tua classe, fai transitare la prole al check-in per il controllo della temperatura (bei tempi quelli del palloncino), fai una giravolta e torni indietro dalla corsia dell’uscita, distanziando il passo per non far incazzare la bidella a guardia del cancello.
Niente concerto nemmeno oggi. Del rave party rimane solo quell’inconfondibile odore di marijuana a cui il genitore di sinistra non rinuncia nemmeno alle 8 del mattino. Ma in fondo ci sta facendo un favore; togliesse anche le cuffie e attaccasse sto cellulare a una cassa portatile, sarebbe tutto perfetto. 

Ma la mia coda del mattino è appena cominciata. 

Ancora inebriata dall’effetto droga leggera prima del caffè, mi accingo ad affrontare il Triangolo delle Bermuda: un isolato in cui si concentrano le file di tutti i servizi più essenziali della città, unica strada da percorre per raggiungere casa. Nel giro di 100 metri mi ritrovo immersa:

  • nella fila del dottore della mutua, un lazzaretto di 20 mq dove si concentrano i peggio virus che l’umanità abbia mai prodotto 
  • nella fila della farmacia, casualmente di fianco allo studio del dottore, dove si riversano quelli usciti vivi dal lazzeretto e comprano le Ziguli solo per avere 5 minuti di termosifone
  • nella fila del supermercato, un set cinematografico da film sull’apocalisse, dove orde di casalinghe sono pronte ad accedere alle provviste con zaini vuoti da montagna
  • nella fila del bar che fa il caffè d’asporto, dove gruppi di anziani si ritrovano per fare due chiacchiere senza un mazzo di carte, senza uno straccio di sedia, che si sono pure dimenticati il berretto prima di uscire di casa e tra un attimo daranno fuoco ai copertoni per scaldarsi un po’.

Dal quartiere trendy al campo rom in un attimo. Ecco come la pandemia ha trasformato le nostre città: malati, scappati di casa, annoiati e ipocondriaci, tutti riversi in strada, che ormai stare in casa ad aspettare il corriere non va nemmeno più di moda. Un campo di profughi sociali, ma ordinato.