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aereo, viaggi, fastidi

1) “Biglietto e Passaporto”

La prima cosa che devi imparare a sopportare è mostrare biglietto e passaporto. Sempre e comunque. A comando. Un movimento incondizionato, quasi convulso. Biglietto&Passaporto state of mind. Non ti puoi rilassare un attimo, dimenticarli in tasca, prenderla alla carlona, che al controllo successivo te li richiederanno. E a brutto muso. Non si sfugge. Biglietto e passaporto finché muori. Al check-in, al gate, all’imbarco, varie ed eventuali. Devi mostrà.

Mediti di allacciarteli in fronte, tatuarteli. Oppure soffocartici.
Sempre una gelata di sangue, quando, sfinita, ogni volta lo rimetto in borsa, credendo sia l’ultima. Poi, quando mi serve di nuovo, rovisto e non lo trovo subito subito.
Così tante gelate, che mi chiedo se ne ricaverò delle complicanze cardiovascolari.

2) Il mostro finale

Finalmente, dopo tutto questo esibire, monti sulla scaletta dell’aereo e ti sento in salvo. Nossignore. Manco adesso. L’hostess belloccia, sulla soglia, con quel rossetto color Uan di Bim Bum Bam, controlla i biglietti.
Ma ancora? Sì.
È l’ultimo livello, l’ultimo nemico da affrontare, stile Bowser di Super Mario.
Se io facessi l’hostess e uno fosse riuscito ad arrivare fin lí senza biglietto?
Cioè, del tipo fermi tutti, abbiamo un eroe, lei farà il suo viaggio rubato in priority, prima classe, immerso in una vasca di champagne e petali di rosa.
Per dire.
A proposito. Una volta, in un aereo enorme intercontinentale, io e mio marito siamo entrati dalla parte sbagliata, cioè quella dei ricchi.
Avevano postazioni singole cabinate, i sedili si ribaltavano fino a diventare letti e davanti a loro avevano TV al plasma, tastiere da pc e altri bottoni interessanti, sembrava che guidassero navicelle interstellari.
Proseguendo il nostro viaggio per i corridoi, in cerca dei nostri posti, i letti singoli divenivano semplici sedili, i sedili divenivano a due a due, sempre meno accessoriati, poi tre a tre, poi a quattro, e i nostri posti sempre più lontani, e ancora a camminare, e le file via via sempre più strette, puzzolenti e affollate… Dopo dieci minuti di camminata: “Francé, io me sto a preoccupà!”
“Tranquilla, mo’ per noi arrivano le panche”

3) Le pheeghe

Ci saranno sempre quelle figherrime che prenderanno l’aereo coi tacchi, il cappellino e la gonna. Non imitatele, non sono nel giusto. Appena le vedo, inizio a decompormi dal fastidio. Giuro, se per il viaggio in aereo avessero inventato qualcosa di piú comodo, trash e socialmente accettabile della tuta, l’avrei indossato.
Un tailleur di gomma-piuma, un poncho di carta velina, foglie di fico.

4) Gli annunci

Lo steward, o come cavolo si scrive, insomma, l’hostess maschio che, in mezzo al tuo riposino, accende improvvisamente le luci, impugna il microfono e a tajo urla qualcosa come: “Ladiesandgentleman, pfffhrshhhyou are impressionsprrrrrshhhh ph ph ph and the pfffffffwharmensh…”
Cioè, dopo anni che fai quel lavoro, tra l’altro, ancora non hai imparato a non sputare e a non ingurgitare il microfono mentre parli?
E tu subito ti agiti, ti scomponi.
Cosa vuole comunicarci?
Stiamo morendo?
Affronteremo una turbolenza?
Quanto mi rimane?
Se accendo il telefono, ce la farò a comunicare ai miei cari che li amo?
Anche un messaggio non inviato, magari rimarrà in memoria e se ritroveranno il mio telefono, forse in qualche modo risaliranno a me!
Decido di svegliare Francesco per comunicargli il mio stato d’ansia. Lui, neanche a dirlo, dorme. Il sonno di mio marito è una particolare condizione biologica nella quale le funzioni vitali sono ridotte al minimo, praticamente si iberna e ogni tentativo di risveglio è una vera e propria manovra di
rianimazione.
Una volta rinvenuto, gli chiedo: “Amò, che dice?”
“Dai, vorrà vende quei profumi de merda.”
Il suo pragmatismo ha un che di consolante, ma a volte non mi basta.
Poi, in mezzo alle frasi inglesi che continua a sciorinare, carpisci parole-chiave come “sandwich”, “panini” e rincuorata ti giri dall’altra parte.
Ma con la fame.

5) Recupero bagagli

Una volta scesa dall’aereo, non ho capito perché nel 2018 devo ancora percorrere a piedi la metà della distanza media tra Terra e Sole per prendere la valigia.
E una volta che sono lì, mesta, ad attendere di fronte a quel nastro trasportatore, mi ricordo di quanto mi sembrasse originale la mia valigia quando l’ho comprata.
E sempre lì, a vederne passare trenta identiche alla mia, e dopo averle violate tutte una ad una e sventato risse coi reali proprietari, scopro di essere soltanto una persona ordinaria.[:it]

aereo, viaggi, fastidi

Viaggi in aereo: cinque cose che ti daranno fastidio

1) “Biglietto e Passaporto”

La prima cosa che devi imparare a sopportare è mostrare biglietto e passaporto. Sempre e comunque. A comando. Un movimento incondizionato, quasi convulso. Biglietto&Passaporto state of mind. Non ti puoi rilassare un attimo, dimenticarli in tasca, prenderla alla carlona, che al controllo successivo te li richiederanno. E a brutto muso. Non si sfugge. Biglietto e passaporto finché muori. Al check-in, al gate, all’imbarco, varie ed eventuali. Devi mostrà.

Mediti di allacciarteli in fronte, tatuarteli. Oppure soffocartici.
Sempre una gelata di sangue, quando, sfinita, ogni volta lo rimetto in borsa, credendo sia l’ultima. Poi, quando mi serve di nuovo, rovisto e non lo trovo subito subito.
Così tante gelate, che mi chiedo se ne ricaverò delle complicanze cardiovascolari.

2) Il mostro finale

Finalmente, dopo tutto questo esibire, monti sulla scaletta dell’aereo e ti senti in salvo. Nossignore. Manco adesso. L’hostess belloccia, sulla soglia, con quel rossetto color Uan di Bim Bum Bam, controlla i biglietti.
Ma ancora? Sì.
È l’ultimo livello, l’ultimo nemico da affrontare, stile Bowser di Super Mario.
Se io facessi l’hostess e uno fosse riuscito ad arrivare fin lí senza biglietto?
Cioè, del tipo fermi tutti, abbiamo un eroe, lei farà il suo viaggio rubato in priority, prima classe, immerso in una vasca di champagne e petali di rosa.
Per dire.
A proposito. Una volta, in un aereo enorme intercontinentale, io e mio marito siamo entrati dalla parte sbagliata, cioè quella dei ricchi.
Avevano postazioni singole cabinate, i sedili si ribaltavano fino a diventare letti e davanti a loro avevano TV al plasma, tastiere da pc e altri bottoni interessanti, sembrava che guidassero navicelle interstellari.
Proseguendo il nostro viaggio per i corridoi, in cerca dei nostri posti, i letti singoli divenivano semplici sedili, i sedili divenivano a due a due, sempre meno accessoriati, poi tre a tre, poi a quattro, e i nostri posti sempre più lontani, e ancora a camminare, e le file via via sempre più strette, puzzolenti e affollate… Dopo dieci minuti di camminata: “Francé, io me sto a preoccupà!”
“Tranquilla, mo’ per noi arrivano le panche”

3) Le pheeghe

Ci saranno sempre quelle figherrime che prenderanno l’aereo coi tacchi, il cappellino e la gonna. Non imitatele, non sono nel giusto. Appena le vedo, inizio a decompormi dal fastidio. Giuro, se per il viaggio in aereo avessero inventato qualcosa di piú comodo, trash e socialmente accettabile della tuta, l’avrei indossato.
Un tailleur di gomma-piuma, un poncho di carta velina, foglie di fico.

4) Gli annunci

Lo steward, o come cavolo si scrive, insomma, l’hostess maschio che, in mezzo al tuo riposino, accende improvvisamente le luci, impugna il microfono e a tajo urla qualcosa come: “Ladiesandgentleman, pfffhrshhhyou are impressionsprrrrrshhhh ph ph ph and the pfffffffwharmensh…”
Cioè, dopo anni che fai quel lavoro, tra l’altro, ancora non hai imparato a non sputare e a non ingurgitare il microfono mentre parli?
E tu subito ti agiti, ti scomponi.
Cosa vuole comunicarci?
Stiamo morendo?
Affronteremo una turbolenza?
Quanto mi rimane?
Se accendo il telefono, ce la farò a comunicare ai miei cari che li amo?
Anche un messaggio non inviato, magari rimarrà in memoria e se ritroveranno il mio telefono, forse in qualche modo risaliranno a me!
Io di solito sveglio Francesco per comunicargli il mio stato d’ansia. Lui, neanche a dirlo, dorme. Il sonno di mio marito è una particolare condizione biologica nella quale le funzioni vitali sono ridotte al minimo, praticamente si iberna e ogni tentativo di risveglio è una vera e propria manovra di
rianimazione.
Una volta rinvenuto, gli chiedo: “Amò, che dice?”
“Dai, vorrà vende quei profumi de merda.”
Il suo pragmatismo ha un che di consolante, ma a volte non mi basta.
Poi, in mezzo alle frasi inglesi che continua a sciorinare, carpisci parole-chiave come “sandwich”, “panini” e rincuorata ti giri dall’altra parte.
Ma con la fame.

5) Recupero bagagli

Una volta scesa dall’aereo, non si capisce perché nel 2018 bisogna ancora percorrere a piedi la metà della distanza media tra Terra e Sole per prendere la valigia.
A questo punto, di solito, io sono lì, mesta, ad attendere di fronte a quel nastro trasportatore e mi ricordo di quanto mi sembrasse originale la mia valigia quando l’ho comprata.
E sempre lì, a vederne passare trenta identiche alla mia, e dopo averle violate tutte una ad una e sventato risse coi reali proprietari, scopro di essere soltanto una persona ordinaria.[:]